In "Fuoco pallido" Nabokov è dio. E dio se la ride
La narrativa moderna ama raccontare di quanto sia ribelle, ma nel 1962 Vladimir Nabokov fa qualcosa di più che ribellarsi: fa esplodere il romanzo.
Con Fuoco pallido (1962), Nabokov costruisce una bomba narrativa, un meccanismo di precisione chirurgica che anticipa l’ipertesto e sfida ogni idea di ordine. Non è un libro. È un test. Un poema di 999 versi scritto dal poeta morto John Shade, con un commento firmato da Charles Kinbote, il curatore più ossessivo e disturbato della storia della letteratura. Ma questo è solo l’inizio.
Il testo è una trappola e il lettore è un topo da laboratorio
Immagina un romanzo travestito da raccolta di poesia con note accademiche. Poi immagina che ogni nota sia una deviazione, un vicolo cieco, un passaggio segreto che ti risucchia dentro storie che non hanno nulla a che vedere con il poema. Kinbote non commenta Shade. Kinbote parla di sé. Del suo passato a Zembla, delle sue paranoie, dei suoi complotti. Ogni volta che pensi di aver capito, sei già caduto nella prossima trappola. Fuoco pallido non è un libro. È un labirinto. È un gioco sadico.
Nabokov ti osserva mentre leggi. Ti mette davanti un percorso, ma il percorso è rotto. Un verso ti manda a una nota, una nota ti manda a un altro verso, e così via, finché non sei lì, con il libro in mano, saltando avanti e indietro come un idiota. Pensi che sia una scelta tua. Non lo è. Ti senti furbo perché trovi connessioni, ma Nabokov le ha messe lì per farti credere di avere il controllo. Non ce l’hai mai avuto. Sei solo un altro topo nel labirinto che lui ha progettato.
Shade VS Kinbote: il conflitto al centro del caos
Poi c’è la lotta. Non tra Shade e Kinbote, ma tra le loro visioni. Shade scrive un poema sulla morte, sulla bellezza, sull’universo che non ha senso. Kinbote trasforma tutto in una storia su di sé, sulla sua fuga da Zembla, su un regno che potrebbe nemmeno esistere. È Shade contro Kinbote. È l’arte contro l’ego. E nel mezzo ci sei tu, il lettore, a cercare di capire chi dice la verità. Spoiler: forse nessuno dei due.
Dietro tutto questo c’è Nabokov. Sempre Nabokov. Che si diverte a giocare con te, con Shade, con Kinbote. L’autore che si nasconde, che ti lascia indizi, che ti porta dove vuole lui. E quando pensi di averlo trovato, quando credi di aver capito qualcosa, Nabokov ti toglie la sedia da sotto il sedere. Non c’è verità in Fuoco pallido. Solo una serie infinita di domande.
Una sfida lanciata al futuro
Nabokov non vuole solo raccontare una storia, vuole costruire un’arma, una macchina che prenda a calci il lettore fuori dalla sua comfort zone.
Vuole dirti: «Ehi, sai cos’è la lettura? È caos. È fatica. È sudore. E tu, lettore, devi lavorare per guadagnarti ogni singola parola».
È così che Nabokov anticipa tutto: l’ipertesto, il postmoderno, la frammentazione della modernità. Ma non te lo dice apertamente. Te lo butta in faccia.
Perché Fuoco pallido è una truffa. È un coltello affilato che Nabokov ti mette in mano, aspettando che ti tagli. Ogni lettura è diversa. Ogni interpretazione è sbagliata. E Nabokov lo sa. Sa che tornerai. Perché questo libro non vuole essere capito. Vuole farti impazzire. E ci riesce benissimo