Infinite Jest: questa cosa che chiamiamo romanzo ma che in realtà è un circuito chiuso di colpa, tempo e cartucce video
Note imprecise, ossessive e in parte scorrette sulla complessità narrativa delle 1079 pagine di David Foster Wallace e su quello che succede alla mente quando ci si prova davvero a leggerlo tutto
Nel momento in cui si prende in mano Infinite Jest (e non è un’immagine metaforica, perché il libro pesa davvero, tanto da richiedere una muscolatura preliminare o almeno un appoggio stabile) si viene subito invasi da una sensazione ambivalente. Da un lato l’intuizione che ci si trovi di fronte a qualcosa di enorme, labirintico, probabilmente ingestibile, dall’altro l’immediata messa alla prova di quella sensazione postmoderna e autoironica secondo cui nessun libro può più contenere il mondo. Ma Infinite Jest non si limita a contenere il mondo, lo deforma, lo moltiplica, lo eccede in ogni direzione.
È un libro che non si lascia spiegare; bensì si fa attraversare, si abitate abitare, a volte respinge, altre volte inghiotte. E forse, nel farlo, ci restituisce un’immagine più fedele di ciò che oggi significa narrare, leggere, essere esposti a un racconto in un’epoca in cui ogni narrazione sembra finalizzata solo alla nostra attenzione intermittente.
Questa narrazione non è lineare (e nemmeno tu lo sei): su come Infinite Jest si rifiuta di cominciare, di finire e soprattutto di spiegarsi
Infinite Jest è una macchina centrifuga, un sistema ipertestuale travestito da romanzo, o forse viceversa. Una struttura che implode e al tempo stesso esplode, in cui l’ordine cronologico è talmente scomposto da richiedere al lettore uno sforzo costante, come se leggere fosse diventato uno sport di resistenza cognitiva. Non c’è linearità, non c’è centro, o se c’è è sfuggente come il contenuto della “cartuccia” omonima, quella che dà il titolo all’opera, quella che tutti cercano ma nessuno sembra aver visto davvero. E già qui, tra narrazione e metanarrazione, si insinua il primo inganno.
Parlare di ‘complessità’ nel caso di Infinite Jest non basta. Bisogna piuttosto pensare a un ecosistema narrativo. Un ipertesto che, pur scritto su carta, si comporta come una rete: ogni frase è un nodo, ogni nota a piè di pagina un rimando, ogni digressione una deriva, un nuovo ramo che si apre e si chiude in tempi e modi apparentemente arbitrari. Il lettore, da lettore, diventa fruitore, operatore, quasi utente, in senso informatico. Costretto a saltare avanti e indietro, a ricostruire una mappa mentale di connessioni e parentele narrative che non sono mai dichiarate, ma solo suggerite.
È impossibile orientarsi nella lettura senza accettare di perdersi. Ed è qui che la forma diventa sostanza: la frammentazione non è un vezzo postmoderno, è un modello epistemologico. Wallace costruisce un mondo in cui la conoscenza non può che essere parziale, disgiunta, confusa, e perciò autentica. Come nella vita reale, ogni personaggio è rinchiuso nella propria prospettiva, ogni dialogo è un’interferenza, ogni evento un’eco di qualcos’altro che forse ci siamo persi. La molteplicità degli stili, delle lingue, dei registri (dal burocratese clinico delle schede mediche alla densità semiotica delle descrizioni droghe-correlate) crea un campo semantico instabile, in cui il lettore deve continuamente negoziare il significato.
La non-linearità di Infinite Jest va letta anche come risposta alla narrazione riduzionista del romanzo tradizionale. Qui non si tratta di raccontare una storia, ma di costruire un sistema semiotico aperto, dove ogni frammento è tanto più significativo quanto più si connette agli altri. È una struttura rizomatica, deleuziana: ogni parte è centro e periferia insieme, ogni significante è provvisorio, ogni lettura è una variazione. Nessuna interpretazione è definitiva perché il testo stesso è ontologicamente instabile.
In questo senso, Wallace anticipa — o meglio, assorbe e rielabora — la logica dell’ipernarrativa. E lo fa senza tecnologia, senza app, senza click. Solo carta, inchiostro, numeri di nota e un’intelligenza che pretende dal lettore nientemeno che un atto di co-creazione. Ecco allora che leggere Infinite Jest diventa orientarsi in un labirinto senza centro, dove l’uscita non è garantita e la mappa viene costruita mentre si cammina.
Personaggi che parlano troppo, troppo velocemente o mai abbastanza: Wallace e l’arte di costruire soggetti narrativi come se fossero disfunzioni cognitive ambulanti
Se in Infinite Jest qualcosa esiste davvero (oltre alla struttura, oltre all’invenzione linguistica, oltre alla demenza temporale dei calendari sponsorizzati) è il dolore. E quel dolore si manifesta nei corpi, nelle menti, nei personaggi, o meglio, nelle unità narrative di soggettività frammentata che popolano il romanzo. Qui non si incontrano eroi o antieroi, bensì entità che lottano per mantenere coesa una qualche idea di sé, spesso fallendo miseramente, altre volte cercando scampo nell’autismo emotivo, nella droga, nell’ironia o nella dipendenza da forme più subdole di intrattenimento.
Hal Incandenza, ad esempio, è un prodigio del linguaggio, ma il suo primo gesto è un mutismo. Don Gately, ex ladro tossico diventato operatore in una comunità di recupero, è incapace di spiegare a parole ciò che lo tiene vivo. Joelle Van Dyne si nasconde dietro un velo, forse sfigurata, forse bellissima, comunque invisibile. Questi personaggi non sono costruiti come tipi o modelli, ma come effetti collaterali di un sistema narrativo che rifiuta la coerenza psicologica: essi sono, letteralmente, frammenti di voce, flussi di coscienza interrotti, echi di traumi che risuonano nel tempo disgiunto della narrazione.
I personaggi non evolvono secondo un arco narrativo, ma oscillano, si torcono, collassano. E in questo senso Wallace riscrive la soggettività postmoderna non più come gioco ironico (alla maniera di Pynchon o DeLillo) ma come tragedia cognitiva: il soggetto non è solo de-centrato, è decomposto. Ogni identità è un campo di battaglia linguistico, un compromesso tra le istanze interne e il rumore di fondo di un mondo che ti invade in ogni momento con informazioni, stimoli, pubblicità, cartucce, sponsor, farmaci, sensazioni.
Non è un caso che in Infinite Jest nessuno riesca a comunicare davvero. La parola è un’arma spuntata, o peggio ancora, una trappola. Gli alcolisti in recupero si affidano a formule rituali, i giovani tennisti parlano come brochure aziendali, i tossici mentono per automatismo. Wallace sembra suggerire che il linguaggio, questo stesso linguaggio che usa con una perizia spaventosa, non basta più. O meglio: è tutto ciò che ci resta, ma è danneggiato.
E allora il personaggio, nel mondo di Infinite Jest, è una specie di macchina danneggiata che cerca ancora di generare significato. Ma non c’è più “carattere” nel senso ottocentesco del termine. Non c’è più interiorità lineare, motivazione, coerenza. C’è solo esperienza accumulata, tensione tra ciò che si è e ciò che si teme di essere, tra il sé narrante e quello narrato, come se ogni soggetto fosse lo scrittore fallito della propria autobiografia. E questo, che potrebbe sembrare il tracollo della caratterizzazione, è in realtà il suo superamento: una soggettività che diventa terreno di lotta tra il caos e la volontà di senso.
La realtà è un media, l’identità è un’interferenza: note disperate sulla cultura pop, sul disincanto e su perché i videoregistratori sono più onesti di noi
L’universo narrativo di Infinite Jest è uno specchio rotto in cui la società contemporanea si riflette a pezzi, frammenti distorti di un’immagine che pure riconosciamo: il volto familiare e mostruoso del nostro tempo. È il romanzo di un’America ossessionata dalla performance, dalla dipendenza, dal consumo, dal dolore come carburante e dall’intrattenimento come anestetico. Wallace costruisce un mondo fittizio, ma appena appena: abbastanza alterato da risultare grottesco, abbastanza familiare da risultare disturbante.
In Infinite Jest, il futuro è dominato da un calendario sponsorizzato ll’“Anno del Pannolone per Adulti Depend” o quello della “Whopper Triple Deluxe”) e da una geopolitica assurda in cui il Canada lancia rifiuti radioattivi sugli Stati Uniti, mentre il Messico osserva in silenzio. Ma al di là del paradosso satirico, il cuore del libro è una doppia disfunzione: la dipendenza dalla sostanza e la dipendenza dalla visione. Droghe e immagini, metanfetamine e intrattenimento letale, sono le due sostanze simboliche che regolano le vite dei personaggi. E non è un caso che Wallace le presenti come varianti della stessa malattia: l’incapacità di tollerare la realtà nuda.
Il film Infinite Jest, all’interno del romanzo Infinite Jest, è una cartuccia video così piacevole da risultare letale: chi la guarda una volta, smette di mangiare, bere, vivere, e chiede solo di rivederla ancora. È il simbolo definitivo dell’intrattenimento come arma. Ma è anche una riflessione brutale sull’industria culturale, sulla pornografia emotiva delle narrazioni semplificate, sull’offerta infinita e algoritmica di stimoli che ha come unico fine l’annullamento della soggettività. Wallace ci dice: Attenti, perché il piacere puro è una forma di schiavitù.
In questa logica, la narrazione diventa una battaglia per il controllo del tempo e dell’attenzione. Il libro non vuole essere letto facilmente, non vuole piacere, vuole disturbare. È lungo, difficile, disorganico. È una provocazione e insieme un atto di fede nella letteratura come esperienza trasformativa. Wallace, ex dipendente lui stesso, conosce il lato oscuro della gratificazione istantanea e cerca una forma di racconto che obblighi il lettore a lavorare, a soffrire, a scegliere. Non c’è binge-reading possibile. Ogni pagina è una trincea.
La comunità di recupero Ennet House e l’accademia tennistica Enfield diventano metafore speculari: da una parte la caduta, la terapia, la ritualità dell’ammissione del dolore; dall’altra l’ascesa, l’allenamento, la soppressione del dolore per la gloria. Ma entrambe sono istituzioni disciplinari, in senso foucaultiano, e dimostrano che la società contemporanea non cura il disagio: lo organizza, lo codifica, lo produce.
Infinite Jest è quindi un dispositivo narrativo che non si limita a rappresentare la società: la disseziona, la espone, la satura. La scrittura stessa diventa un gesto sociologico. E come ogni buon gesto sociologico, non si accontenta di dire “com’è”, ma ci chiede: perché ci stiamo abituando a tutto questo? Perché accettiamo la dipendenza come condizione normale dell’esistenza? Perché il dolore ci spaventa meno della noia?
Il tempo come disturbo d’ansia generalizzato: entropia, attese infinite e l’incapacità umana di arrivare da A a B senza perdersi a metà
Il tempo, in Infinite Jest, non scorre: si accumula. È una sostanza opaca, granulosa, piena di grumi di presente che si spaccano in rivoli di passato e futuri abortiti. Nulla avanza in modo lineare. Ogni evento sembra già accaduto o sul punto di ripetersi. C’è un senso cosmico di stallo, come se l’intero universo narrativo fosse incastrato in una specie di buffer esistenziale. La tensione non è “verso” qualcosa, ma “contro” qualcosa: contro l’entropia, la dissoluzione, il collasso semantico.
Eppure, paradossalmente, è proprio questo disordine che genera senso. Wallace gioca con il tempo narrativo come se fosse una sostanza manipolabile, un cubo di Rubik deformato da un bambino iperintelligente ma traumatizzato. Il romanzo inizia con una fine (la scena di Hal al college, in preda a un’esplosione semantica interna) e termina con un’assenza: il lettore non saprà mai cosa è successo nella parte “mancante” della storia. Ma questa mancanza non è un errore o un capriccio postmoderno: è un meccanismo deliberato. La trama è una specie di Möbius narrativo, dove l’inizio e la fine coincidono, ma si sfiorano solo nel pensiero, mai nella lettura.
Questa costruzione esprime un’idea precisa: che la chiusura sia una forma di violenza sul reale. In Infinite Jest, non esiste redenzione finale, non esiste risoluzione, non esiste l’ordine catartico della narrazione classica. Tutto è lasciato in sospeso, come nei pensieri ossessivi o nei loop dei tossici: si gira intorno al problema, si evita l’esplosione, si rimanda. Il tempo si fa patologico, come nei disturbi depressivi o nei processi compulsivi. E questa concezione temporale non riguarda solo la storia, ma l’intera costruzione dell’opera: ogni nota, ogni flashback, ogni digressione è un’interferenza nel continuum, una crepa nel flusso.
Wallace era ossessionato dall’entropia, sia come concetto fisico che come metafora culturale. Sapeva che ogni sistema chiuso tende al caos, e che la letteratura, se onesta, non può far finta di essere immune. Per questo Infinite Jest è un libro che collassa mentre si legge: non nel senso che si disgrega, ma che cambia stato, diventa altro. Come se contenesse troppa energia per restare in una sola forma. È romanzo, saggio, diario, flusso di coscienza, trattato sulla tossicodipendenza, glossario di un’epoca. E la sua forma aperta, spezzata, rimanda a un’idea precisa di temporalità: quella dell’ansia. L’ansia è, in fondo, la consapevolezza che il futuro arriverà, ma potrebbe essere peggiore del presente.
In questo senso, leggere Infinite Jest è un atto di resistenza. È attraversare il tempo narrativo come un campo minato, dove ogni passo può essere una nota a piè di pagina o un crollo emotivo. Eppure, è proprio nell’impossibilità della chiusura che si nasconde una nuova forma di etica narrativa: il riconoscimento che il caos non va domato, ma abitato. Che non c’è fine – e non serve.
Non c’è morale, solo rumore: perché Infinite Jest non ti cambia la vita ma forse ti obbliga a guardarla in faccia
Leggere Infinite Jest oggi è come decidere di scalare a mani nude una montagna che altri sorvolano in drone per poi dire “che bel paesaggio”. È un atto che rifiuta la semplificazione, che pretende partecipazione, che chiede al lettore di essere responsabile della propria interpretazione, del proprio disagio, della propria fatica.
Wallace non ha scritto solo un romanzo. Ha scritto una macchina di senso, un’opera che non vuole mai intrattenerti ma sempre metterti in crisi. Leggendo Infinite Jest non impari “come va a finire” ma quanto puoi reggere prima di mollare. E se non molli, se attraversi il pantano di note a piè di pagina, acronimi, personaggi semi-defunti e frasi lunghe tre pagine, ti accorgi che qualcosa dentro di te è cambiato. Non sai bene cosa. Ma lo senti.
Perché Infinite Jest ci riguarda ancora? Perché è un libro scritto da un uomo che sapeva di non poter più distinguere tra il dolore reale e quello prodotto dai media, tra la tristezza vera e quella algoritmica. E noi oggi siamo immersi fino al collo in questa confusione. Viviamo in loop, come i personaggi del romanzo. Vogliamo essere felici e non sentire niente. Siamo tossici di attenzione, dipendenti da narrazioni che ci evitano di pensare. E Infinite Jest, invece, ci costringe a pensare.
Non offre risposte. Non consola. Non è neanche un romanzo che “piace”. Ma è un romanzo che resiste. E in un’epoca in cui tutto deve essere chiaro, sintetico, vendibile e riconoscibile, un’opera che resiste è un atto politico. Wallace, che ha conosciuto la depressione e la dipendenza, ci dice che la letteratura può essere una forma di sopravvivenza. Ma solo se rinuncia all’idea di salvarci. La letteratura (come Infinite Jest) può solo mostrarci quanto siamo complicati, e quanto valga la pena restarlo.